Le sette opere rappresentano la personale interpretazione di Tibaldi dei sette capitoli del libro, ripercorrendo le suggestioni di una generazione, quella degli anni 80 e 90, raccontandone un viaggio dal sapore agrodolce utilizzando l’allegoria rassicurante di una civiltà di ratti, inventando un topos della provincia italiana
verosimile in forme diverse per tante aree della penisola. La forma spezzata è dunque una favola immediata, che ha il vantaggio di rifuggire la narrazione del reale fondandola su una presunzione descrittiva, un vantaggio che le permette di evitare l’imperativo della ricerca di un insegnamento, della corretta informazione che perviene a una morale, alla univoca soluzione del problema; a quei ragionevoli buoni propositi che generano grassi e vantaggiosi affari. Sarebbe ridondante spiegarne il contenuto e scontato doverne raccontare ulteriormente le personali visioni che ispirano le sette teche in mostra, ma forse potrebbe essere più interessante cercare di capire, come suggerisce il titolo della mostra, perché Tibaldi ha utilizzato questa forma narrativa come pretesto per la sua nuova produzione.
Attraverso la Favola l’artista disegna la sua via di fuga dal loop dello specchio di derridiana memoria nel quale l’alterità è relegata a mera presenza. Una piccola lanterna giocosa per scacciare l’indomita tendenza dell’umanità all’oblio. L’invenzione ex nihilo della favola non crea nulla, nel senso teologico del termine << la favola non fa che inventare ricorrendo ad un lessico e a delle regole sintattiche, ad un codice in uso, a delle convenzioni alle quali si sottomette in un certo modo. Ma essa dà luogo ad un avvenimento, racconta una storia fittizia e produce una
macchina introducendo uno scarto all’interno dell’uso abituale del discorso, disorientando in una certa misura l’habitus d’attesa e di ricezione di cui essa ha tuttavia bisogno; essa forma un inizio e parla di questo inizio, e, all’interno di questo doppio gesto indivisibile, inaugura. È in ciò che risiede questa singolarità e questa novità senza le quali non ci sarebbe invenzione.>>1
Lo scarto di cui parla Jacques Derrida è evidente nella concezione stessa del progetto; un libro che indaga la distanza che si genera nella lettura ai bambini, che rideranno della forma, dei topi, delle paradossali avventure di quella comunità, ma che nell’adulto, inizierà a prendere il gusto amaro di una specifica parte della propria esistenza, delle occasioni sprecate, dell’adesione a forme e modelli che hanno sedotto e abbandonato
la provincia Italiana e il suo popolo. Un crocevia epocale complesso da indagare dal punto di vista sociale e dell’immagine per la quantità
di stimoli e desideri innescati dal consumo di massa, che ha prodotto una cultura popolare fatta di svaghi, cibi precotti e dolciumi confezionati pronta a implodere. Eravamo tutto drive-in e merendine. Un periodo cruciale per la storia italiana e per il suo lascito culturale, sfociato in un circolo di attribuzioni di responsabilità tra giovani e vecchie generazioni. Storie verosimili della tipica educazione sociale di quegli anni, di padri lavoratori e bontemponi e madri casalinghe operose, di pregiudizi e discriminazioni, di dogmi accelerazionisti chi sa fare fa, chi non sa fare studia, del denaro contrapposto alla cultura, del nord al sud, meccanismi culturali che hanno portato a polarizzazioni
Eugenio Tibaldi sa di provenire da quella cultura, la conosce profondamente e ne ha udito il tonfo, ma con l’invenzione, con la favola, sente l’esigenza di poterla discutere raccontando una storia per una nuova generazione, compiendo il suo primo passo ideale oltre la nostalgia e prendendone coscienza.
<<[…]Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere>>2 Lo specchio non è più il luogo dell’alienazione e della presenza, ma della rivelazione e della trasformazione. Il mondo immaginario di Tibaldi diventa uno strumento ad-personam, nel caleidoscopio di riferimenti, con il quale ognuno può riscontrare gli appigli per interrogare la realtà e se stessi, per scoprire aspetti nascosti o negati della propria identità e della propria storia.
Eugenio Tibaldi è nato ad Alba nel 1977, vive e lavora a Torino. Da sempre attratto dalle dinamiche delle aree marginali, per un lungo periodo ha scelto di vivere a Napoli. Attraverso una pratica che è diventata un metodo, il lavoro di Tibaldi si struttura attraverso i meccanismi e le dinamiche di luoghi specifici, quasi sempre spazi marginali, per cercare di riflettere su una condizione ricorrente nelle comunità umane che si sottraggono alla logica del cultura consumistica occidentale. Intese come strumento di interpretazione per una contemporaneità sempre più marginale, le opere tentano di escludersi dall’idea di “grande narrazione”, focalizzando l’attenzione sui dettagli specifici di una realtà spesso mediocre e imperfetta. In questo modo, l’interesse si sposta dal centro all’esterno, in un dialogo con tutte le pratiche informali
che, mosse da un dinamismo estremo, determinano i cambiamenti dell’estetica a cui si fa riferimento. Tra le sue mostre personali: 2023 ATOPOS, The Drawing Hall, Bergamo, IT; 2022 Marginal Carillon, con Taketo Gohara, a cura di Irina Zucca Alessandrelli, BASE Milano, Milano, I; 2021 Balera, Galleria Umberto Di Marino, Napoli, I; Temporary Landscape, Erbari, Mappe, Diari, a cura di Marco Scotini, PAV – Parco d’Arte Vivente, Torino, I.; Architetture dell’isolamento, a cura di Angel Moya Garcia, Tenuta dello Scompiglio, Capannori, Lucca, I; 2020 Anthropogenic Connection, a cura di Adriana Rispoli e Meskerem Assegued, Zoma Museum, Addis Abeba, E; Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione, a cura di Lucrezia Longobardi, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma; 2019, After Leonardo, Giardino Abusivo, Museo del Novecento, Milano; Più là che gli Abruzzi, a cura di Simone Ciglia, MuMi Museo Michetti, Francavilla al Mare (CH); 2016 Seconda chance, MEF Museo Ettore Fico, a cura di Andrea Busto Torino; Questione d’appartenenza, Museo MADRE, Napoli; 2013 Archeologia / Contemporanea _02, Museo Archeologico, Ascoli Piceno; 2011 Transit – 4, State Museum of Contemporary Art, Salonicco; 2010 Project Room, a cura di Adriana Rispoli ed Eugenio Viola, Museo MADRE, Napoli. Ha partecipato a importanti mostre d’arte internazionali come: 2022 PANORAMA – Monopoli, mostra diffusa a cura di Vincenzo De Bellis; 2019 CautionaryEnvironment, Cuba Pavillon 58 Biennale di Venezia; 2018 The Street. Where the World Is Made, a cura di Hou Hanru, Museo MAXXI, Roma; 2017 Da io a noi, a cura di Anna Mattirolo, palazzo del Quirinale, Roma; 2015 XII Biennale de L’Avana, Entre la Idea y la experiencia, a cura di Jorge Fernàndez Torres; 2015
Per_forming #4, a cura di Alessandro Rabottini ed Eugenio Viola, Museo MADRE, Napoli; 2014 To go between, a cura di Eugenio Viola, Collezione Ernesto Esposito, Museo di Capodimonte, Napoli; 2013 4° Biennale d’arte contemporanea di Tessaloniki, Tradition – Reversal, a cura di Katerina Koskina and Yannis Bolis, State Museum of Contemporary Art, Thessaloniki, GR; 2010 Transient Space_The Tourist Syndrome, Bucarest, a cura di Irina Cios, Marina Sorbello, Antje Weitzel, Centro Internazionale d’Arte Contemporanea; 2008 Tabula Rasa: 111 days on a long table, progetto speciale a Manifesta7, a cura di Denis Isaia, in collaborazione con Raqs Media Collective, Ex Alumix, Bolzano; 2007 Laws of Relativity / La legge è relativa per tutti, a cura di Anna Colin e Elena Sorokina, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo,
Torino.
Dal 2001 collabora con la Galleria Umberto di Marino, Napoli, presso la quale ha realizzato diverse mostre personali: Points of view (2007); Supernatural (2010); BUBO (2013); Cuba Casinò (2016); Balera (2021)
Inaugurazione: sabato 20 gennaio 2024, dalle 11:00 alle 21:00
Durata: fino al 20 aprile 2024
Sede espositiva: Casa Di Marino – Via Monte di Dio, 9, 80132 – Napoli
Orario: lunedì – venerdì ore 10.30 – 13.30 / 15.00 – 19.00